venerdì 9 maggio 2025
In una mostra alla Biennale terra cruda, canapa, posidonia si ibridano comemateriali da costruzionecon la stampa in 3D. Ratti (MIT): «Nell’etàdell’adattamento bisognaattingere a tutti i saperi»
Architettura, il futuro dell'abitare passa da robot e batteri

ANSA

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Il futuro dell’architettura (e del pianeta) sarà deciso da batteri e robot. Potrebbe essere questa la sintesi brutale della Biennale Architettura che apre oggi al pubblico a Venezia, ma renderebbe poca giustizia a “Intelligens. Natural. Artificial. Collective”, la mostra internazionale curata da Carlo Ratti, docente presso il Massachusetts Institute of Technology di Boston, dove dirige il MIT Senseable City Lab. È una Biennale che si stacca dalle ultime, più concentrate sui temi della sostenibilità, della decolonizzazione, del genere. Questi temi non mancano in mostra, ma sono reinquadrati in una prospettiva culturale differente. Scrive Ratti: «Per decenni, l’architettura ha risposto alla crisi climatica con la mitigazione: progettare per ridurre il nostro impatto sul clima. Ma questo approccio non è più sufficiente. È il momento che l’architettura passi dalla mitigazione all’adattamento: ripensare il modo in cui progettiamo in vista di un mondo profondamente cambiato». Adattamento è la parola chiave – Ratti parla esplicitamente di “età dell’adattamento” – indice di una presa di coscienza che l’inversione di rotta sul cambiamento climatico è una chimera e che la progettazione di un futuro possibile deve passare per altre rotte.

«L’adattamento richiede un cambiamento radicale della nostra pratica. La mostra di quest’anno invita diversi tipi di intelligenza a lavorare insieme per ripensare l’ambiente costruito. Nell’età dell’adattamento, l’architettura deve attingere a tutte le forme di intelligenza: naturale, artificiale, collettiva. Nell’età dell’adattamento, l’architettura deve rivolgersi a più generazioni e a più discipline, dalle scienze esatte alle arti. Nell’età dell’adattamento, l’architettura deve ripensare il concetto di autorialità e diventare più inclusiva, imparando dalle scienze». Tra gli oltre 750 partecipanti, con 300 contributi, oltre ad architetti e ingegneri troviamo matematici e scienziati del clima, filosofi e artisti, cuochi e codificatori, scrittori e intagliatori, agricoltori e stilisti. Potremmo osservare che l’elemento spirituale e religioso viene preso in considerazione poco o nulla: come pensare davvero in termini collettivi e di collettività se si esclude dall’orizzonte un fattore fondamentale, non fosse altro dal punto di vista antropologico e sociologico, come questo? Ma la vera novità sarebbe se fosse accaduto il contrario.

Il punto, in generale, è che Ratti esce da un dualismo digitale/naturale, riconoscendo all’architettura una ininterrotta continuità tecnologica e individuando il punto di approdo nell’ibridazione – sostanzialmente come adattamento reciproco – di biologico e artificiale. Tutto questo è raccontato in una mostra densa e senza dubbio spettacolare: abbondano infatti le grandi installazioni, molto più che in passato, cosa che rende la visita godibile anche a un pubblico generalista, mentre una lunga serie di altri progetti è raccontata attraverso pannellature disposte ai lati. Il fatto che il Padiglione centrale dei Giardini sia chiuso per ristrutturazione si è rivelato un grande vantaggio. Il solo utilizzo delle Corderie all’Arsenale consente un percorso ampio ma compatto, ben scandito e soprattutto misurato, mitigando quell’ipertrofismo che davvero poco ha giovato alle Biennali di entrambi i generi.

Per quanto non manchino progetti di singoli edifici o su scala urbanistica, in generale emerge un’idea di architettura che porta la cultura di progetto, in particolare a lungo termine e intesa come strumento di analisi e non solo di realizzazione, verso la questione dell’habitat. Il cardine concettuale è uno spostamento dal principio di sostituzione, valido per l’ex novo e la riqualificazione, verso quello di integrazione, in cui in gioco non è semplicemente il rapporto tra uomo e natura ma in cui la dinamica di interspecie compie un doppio salto di regno, estendendosi in modo simmetrico verso l’organico (batteri e funghi) e il digitale. Anzi, la possibilità di interazione e fusione tra questi due finisce per chiudere il cerchio.

Il punto di contatto è lo sviluppo evolutivo che biotecnologie, biomateriali, sensori, intelligenza artificiale conferiscono all’edificio e alla città. L’esito paradossale è che questa Biennale estremamente tecnologica appaia anche la più “naturale”. La terra cruda, la canapa, la posidonia come materiali di costruzione o isolanti si combinano alla stampa in 3D e ai materiali edili ottenuti dall’azione di batteri e detriti da demolizioni. La stesso layout espositivo utilizza in modo estensivo queste tecnologie. La sezione dedicata al “collettivo”, in cui sono presi in esame soprattutto gli spazi comunitari o l’uso comunitario degli spazi, che non sono esattamente la stessa cosa, è una celebrazione della fiducia e della logica collaborativa, in cui a vincere sono tutti. Ma perché questo accada, le tecnologie avveniristiche servono fino a un certo punto; occorre piuttosto una buona idea, come mostra il padiglione della Santa Sede, che ha come titolo “Opera aperta” ed è a cura di Marina Otero Verzier e Giovanna Zabotti. Su questo torneremo più avanti e in modo approfondito. Qui basti soltanto che mentre le proposte portate in Biennale di solito atterrano a Venezia e decollano, questa si radica e abita, generando città.

Più in generale, le singole partecipazioni nazionali nei padiglioni dell’Arsenale e dei Giardini declinano il tema della Biennale con proposte più tradizionali, anche se non mancano esiti visivamente interessanti, come nel caso del Messico o della Germania (che per una volta non cerca di cancellare il padiglione di Speer). Il Padiglione Italia, dal titolo “Terrae Aquae” e curato da Guendalina Salimei, vuole essere uno sguardo collettivo sulla nostra penisola a partire dal mare. Sostenuto dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del ministero della Cultura, rispetto alle Biennali del passato ha una struttura ambiziosa e finalmente adeguata allo spazio. L’idea tematica è giusta, la scelta di raccogliere proposte dal basso sulla carta interessante. Meno efficace però il risultato, sia per alcune scelte di allestimento, sia anche a causa della qualità a tratti velleitaria dei contributi, entro cui per altro non mancano punte eccellenti. Inoltre la quantità di proposte (oltre 600), presentate in maniera necessariamente ma fin troppo sintetica, più che creare una comunicazione collettiva finisce per generare una massa rumorosa. Il “pontile della ricerca”, dove vengono presentato il lavoro di diverse università, resta il passaggio più fruibile, ma non basta a trasformare un mosaico di frammenti in un’immagine.

Di architettura “pura” è invece quello degli Stati Uniti, una estesa ricognizione sul “porch”, ossia il portico-veranda, che segna tutto il costruito americano, che sia aulico o vernacolare, monumentale o residenziale. Uno spazio interstiziale, entrato anche nel nostro immaginario grazie al cinema, che identifica l’american way of life.

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