
Nino Benvenuti - Fotogramma
L’ultimo gancio gli è arrivato dal Cielo e per noi tutti che abbiamo amato Nino Benvenuti questo è il più doloroso, quello dell’addio. A 87 anni la bella faccia del pugilato mondiale se ne va per sempre. Una grande storia quella di Giovanni Benvenuti detto Nino. Il Nino nazionale che ho avuto il privilegio di conoscere da vicino e a più riprese. Ma prima del campione del ring, del volto e il fisico cinematografico veniva l’uomo verticale, convinto delle sue idee forti e dal cuore grande come il mare che bagna la sua Isola. E allora non dimenticherò mai quando Nino telefonò qui, alla redazione sportiva di Avvenire perché voleva parlare in anteprima del suo libro di ricordi di “giovane esule istriano”, L'isola che non c'è. Il mio esodo dall'Istria (Libreria Sportiva Eraclea). Un viaggio della memoria in cui si definiva la seconda stella di quell’Isola, anche se ancora la più luminosa. La prima stella infatti, era stata quella della squadra dei canottieri, medaglia d'oro alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928. Erano gli eroici vogatori di Isola d'Istria, il paesino carezzato dall'Adriatico dove Nino Benvenuti, la leggenda del pugilato italiano, era nato nel 1938 e in cui aveva vissuto la sua "meglio gioventù".
La mia meglio gioventù in Istria, nell' "Isola che non cè"
«Quelli in Istria sono stati gli anni più dolci della mia vita, con la grande fortuna di crescere in una famiglia stupenda, isolana da quattro generazioni, in cui regnavano l'amore e l'armonia che mio padre e mia madre avevano trasmesso a noi figli». I cinque fratelli di casa Benvenuti, quattro maschi (Eliano, Nino Alfio e Dario) e una femmina (la più piccola, Mariella). Di quel tempo pacifico e spensieratamente ludico, gli era rimasto il sapore familiare delle «patate in tecia e dello strucolo de pomi», ma soprattutto l'odore del mare che partiva dal banco della pescheria paterna. «Tutto intorno odorava di pesce salato. Anzi senza quell'odore, Isola non sarebbe stata più la stessa. Sì, perché Isola era un paese di pescatori e tutta la sua cultura, la sua storia, la sua gente veniva dal mare. E viveva grazie al mare», aveva scritto Benvenuti a quattro mani con Mauro Grimaldi. Titolo romantico quell’Isola che non c’è, rimando al celebre brano di Edoardo Bennato, se non fosse per il tragico sottotitolo, "Il mio esodo dall'Istria", che invece, parla di fuga, di dolore e di morte. «I fascisti parlavano di bonifica etnica, gli slavi di normalizzazione. Alla fine si è trattato solo di violenza che ha generato altra violenza», raccontava amaro Nino. Il germe velenoso si insinuò in quella piccola comunità «composta a maggioranza da italiani puri» che, dalla nazionalizzazione di Mussolini e dal controllo delle truppe tedesche, due anni dopo l'8 settembre 1943 si ritrovarono braccati dai partigiani di Tito. «Il Maresciallo ordinò le epurazioni di noi italiani d'Istria con processi sommari, espropri, torture. La gente spariva dal mattino alla sera... Tito cominciò da Zara nel '44 dove fecero 2mila morti su una popolazione di 20mila abitanti. Poi toccò a Fiume che cambiò nome in Rijeka e infine nel '46 a Pola con 28mila esuli su 34mila abitanti». il bilancio drammatico di un ragazzo scampato al peggio e che prima di quei giorni assurdi si preparava al suo destino di campione. Nella cantina di casa Benvenuti il giovane Nino si era costruito il suo sacco da boxeur e due-tre volte alla settimana in sella a una bici copriva i 60 km tra andata e ritorno che separano Isola da Trieste, per andare ad allenarsi in una vera palestra pugilistica. «Mi accompagnava Luciano Zorzenon, il primo a credere che sarei potuto diventare un asso del pugilato. Era un personaggio degno di Emilio Salgari: lavorava come palombaro a Isola per recuperare i resti del transatlantico Rex affondato dagli inglesi nella baia di Capodistria». Quelle tappe estenuanti erano ancora scanzonate, fino al giorno in cui la guerra fratricida non entrò in casa Benvenuti.
I due grandi dolori, il fratello Eliano e la morte della madre
«L'Ozna, la polizia politica di Tito, si presentò alla nostra porta e arrestò mio fratello Eliano che aveva 16 anni che per fortuna poi scampò alle foibe. Rivedo ancora le lacrime di mia madre, la sua disperazione. Soffriva di cuore, da quel giorno iniziò a morire, si spense a 46 anni». Intanto Tito aveva annesso Trieste dove sui muri si leggeva: "Trst je nas" (Trieste è nostra). Seguirono quaranta giorni di sangue (dal 1° maggio al 9 giugno del '45), prima dell'arrivo degli americani. Un tempo sufficiente per il massacro della comunità italiana in Istria da parte dei titini che se la presero anche con i preti. Benvenuti ricordava con profondo affetto e ammirazione don Francesco Bonifacio, ucciso a guerra ormai finita nell'estate del '46, e monsignor Antonio Santin, vescovo di Trieste e Capodistria che, accusato di essere un nemico del popolo jugoslavo, subì le percosse di una banda di balordi. Il parroco di Isola, don Giuseppe Dagri, scampò alla morte fuggendo. Maestri e professori delle scuole italiane lo seguirono, ma alcuni non riuscirono ad arrivare a Trieste (tornata sotto l'Italia nel 1954), dove il loro "calvario" non era ancora terminato. «Ricordo il pianto dei miei nonni il giorno che lasciarono Isola, erano consapevoli che non l'avrebbero più rivista. Vennero con noi a Trieste dove avevamo già un'attività commerciale e una casa e così non siamo finiti, come la maggior parte dei profughi, nei 109 centri di accoglienza che erano stati allestiti. Baraccopoli dove istriani e dalmati venivano trattati da "indesiderati", così tanti preferirono emigrare in Australia o in America, insomma il più lontano possibile da quella terra amata e perduta». Una terra da cui Nino portò via con sé solo «i ricordi delle piccole cose» che aveva appena imparato a conoscere ed amare. «Io e i miei fratelli andavamo pazzi per i giochi che facevamo per la strada o giù al porto, a Castel Verde. Pomeriggi d'estate passati a pescare "mussoli" e "peoci" (le cozze) e d'inverno tutti assieme ci riscaldavamo davanti al "fogoler" (focolare). Mi è rimasto dentro quel dialetto di Isola e crescendo nonostante le gioie e i tanti momenti di gloria che mi ha regalato lo sport e la vita, non sono riuscito a cancellare quel senso di sradicamento. Come a degli alberi, a noi italiani d'Istria hanno strappato le radici, per sempre. Ma io resto prima istriano e poi italiano», ripeteva con un piglio fiero alla Muhammad Ali ogni volta che si affrontava l’argomento.
Trieste, la città del talento che imparò dai "ballerini del ring"
Fu comunque a Trieste che sbocciò il talento del ragazzino fisicamente non impressionante ma che fin dai primi incontri mascherava il gap con gli avversari più "grossi" puntando su una tecnica sopraffina. Arte nobilissima appresa nella palestra giuliana rubando il mestiere con gli occhi ai mitici danzatori del quadrato, Tiberio Mitri e Duilio Loi. Ballerini eccelsi, ma mai quanto lo straordinario Sugar Ray Robinson che per «me resta il più grande di tutti, anche di Cassius Clay», sottolineava convinto Nino. Ricordi dolci, misti all'amaro. Come la perdita precoce della madre. «Per me fu un colpo tremendo. Da allora sono sempre salito sul ring con la sua fede legata a un laccio della scarpa». Un simbolo di protezione che da lì a poco lo avrebbe accompagnato alla conquista del titolo olimpico dei welter ai Giochi umani di Roma 1960. Un'impresa compiuta scendendo di categoria, «quattro chili sotto il mio peso forma». Uno dei tanti sacrifici imposti per diventare qualcosa di più di un pugile, il simbolo di una nuova Italia. Nino, il figlio di un Paese in pieno boom. Se Mitri e Loi erano stati i pugili dell'Italia della fame e della miseria, Benvenuti rappresentava il pieno riscatto di un'Italia che produceva e che era in grado anche di esportare bellezza e spirito vincente anche con il pugilato. Uno sport che all'epoca con orgoglio Benvenuti rimarcava «era con il ciclismo il più amato dagli italiani, il calcio veniva dopo».
Benvenuti-Mazzinghi: 50mila a San Siro, quando il pugilato era più amato del calcio
Lo storico confronto Benvenuti-Mazzinghi (18 giugno 1965 a Milano), valevole per il titolo mondiale dei welter, portò cinquantamila spettatori allo stadio di San Siro. Un successo, quello di Benvenuti, che Mazzinghi non ha mai digerito e da allora i due non si sono più rivolti la parola. Ma l'apoteosi per «Nino l'italiano», come lo chiamavano a New York, fu il 17 aprile 1967 al Madison Square Garden. Per non destare gli italiani dal sonno (ordine del governo), quella sfida epica, la prima della trilogia con l'amico-nemico Emilie Griffith, venne trasmessa dalla tv registrata il giorno dopo, ma oltre diciotto milioni di connazionali restarono comunque svegli fino all'alba ascoltando la palpitante radiocronaca in diretta dalla voce cristallina di Paolo Valenti. Un trionfo e l'inizio di un'amicizia fraterna che solo il pugilato può creare, quella con "Emilio". Il suo amatissimo Emile Griffith, anche lui classe 1938: il primo pugile originario delle Isole Vergini a conquistare la corona di campione del mondo professionisti. Un pugno di pietra, quello del colored, talmente potente che nel 1962 uccise Benny Paret, "reo" di avergli dato pubblicamente dell'omosessuale durante la cerimonia di presentazione del match. «Griffith era omosessuale, cosa difficile da accettare in quell'America degli anni '60 ancora profondamente omofoba e razzista», raccontava con tenerezza Benvenuti. La morte di Paret è una delle tante cicatrici impresse nell'anima di Griffith che l'amico Nino ha accudito e onorato fino alla fine dei suoi giorni. Così come ha fatto con Carlos Monzón, l'altro grande amico-nemico di una carriera costellata dai 170 incontri vinti, prima della sconfitta farsesca con il sudcoreano Ki Soo Kim, mentre si avviava a salire sul trono del re dei superwelter (nel 1965-1966) e poi dei medi (dal 1967 al 1970).
Nino l'amico e protettore dei pugili, dopo Griffith in soccorso di Monzón
Ma il match con Monzón, l'8 aprile 1971, fu il suono del gong finale. La spugna gettata sul ring di Montecarlo dall'amico manager Bruno Amaduzzi era il segno della resa definitiva dinanzi a quel nuovo monarca dei medi, l'angelo dalla faccia sporca. L'indio Carlos, invulnerabile sul ring quanto fragile appena metteva i piedi fuori per seguire un cammino disperato, poi macchiato dall'omicidio della moglie. Un tragico epilogo, quello di Monzón, morto a soli 46 anni in un incidente stradale mentre stava rientrando in carcere. «Andai a trovarlo in Argentina, al penitenziario di Chunin dove era recluso. Mi accolse con un sorriso dicendomi dolcemente: "Come va Nino, siamo ancora amici vero?". Certo che siamo amici, gli ho risposto abbracciandolo». Nino Benvenuti portò sulle spalle la bara di Monzón in un funerale seguito da ventimila argentini in lacrime. Ho visto Nino piangere quando mi ha raccontato l’esperienza più forte della sua vita che non è stata quella vissuta su un ring. «Con gli amici della Caritas andai lavorare da volontario nel lebbrosario di Madras, in India”. L'uomo da una carezza in un pugno aveva fatto esperienza diretta con il dolore di quell'umanità dimenticata. Lì, nel lebbrosario indiano aveva toccato con mano le ferite fisiche di corpi che in cambio gli avevano donato la «fratellanza e la dolcezza» delle loro anime. Un incontro alla pari, perché Nino è e rimane una grande anima, non solo dello sport. Un uomo che ha regalato sogni ed emozioni forti a quelle generazioni che, guardando il suo corpo scultoreo, potente, teso verso l'ultimo sforzo, hanno creduto nel futuro e nella nascita di un mondo migliore, privo di ingiustizie e magari senza più guerre. In tutto questo ha creduto Nino Benvenuti senza mai gettare la spugna, senza mai temere la morte e facendo sua la frase di un altro combattente leale come lui, Nelson Mandela «A volte un vincitore è semplicemente un sognatore che non ha mai mollato».