mercoledì 9 aprile 2025
Riproponiamo una sua lunga intervista realizzata da Paola Severini Melograni in occasione del conferimento del 40° Premio Nonino Risit d’Aur, per valorizzare la civiltà contadina
La camera ardente allestita per Roberto De Simone al Teatro San Carlo di Napoli

La camera ardente allestita per Roberto De Simone al Teatro San Carlo di Napoli - Fotogramma

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Roberto De Simone, morto qualche giorno fa, il 6 aprile a 91 anni, è stato una figura centrale nella musica e nella cultura napoletana. Compositore, musicologo, regista e autore teatrale, ha dedicato la sua vita alla riscoperta e alla valorizzazione del patrimonio musicale tradizionale partenopeo. Come abbiamo raccontato sulle pagine di Avvenire, fondò nel 1967 la Nuova Compagnia di Canto Popolare, che ha animato per un decennio, e fu direttore artistico del Teatro San Carlo di Napoli dal 1981 al 1987. Le sue opere più celebri includono La gatta Cenerentola (1976), che gli procurò successo internazionale, e L’opera buffa del giovedì santo (1980), tra le altre. De Simone è stato anche un prolifico saggista, pubblicando numerosi studi su musica popolare, il presepe napoletano e la tradizione musicale campana. Tra i suoi riconoscimenti, il Premio Nonino Risit d’Aur (2015) e il titolo di Cavaliere di Gran Croce (2019). Napoletano di nascita, iniziò la carriera come concertista e ricercatore musicale, collaborando con artisti come Eugenio Bennato e Carlo d'Angiò. La sua attività di ricerca sul campo, nelle feste popolari, gli permise di trascrivere e reinterpretare antiche melodie, creando un ponte tra la tradizione popolare e la musica colta. De Simone ha scritto anche per il cinema e per il teatro, lavorando con registi come Eduardo De Filippo e Lina Wertmüller. Il suo impegno nel preservare e innovare la cultura musicale napoletana lo ha reso un pilastro della scena culturale italiana. In occasione dei suoi funerali, che saranno celebrati oggi, mercoledì 9 aprile alle ore 16.00, dal Cardinale Domenico Battaglia presso il Duomo di Napoli, riproponiamo qui di seguito l’estratto di una sua lunga intervista, realizzata da Paola Severini Melograni proprio in occasione del conferimento del 40° Premio Nonino Risit d’Aur, istituito per valorizzare la permanente attualità della civiltà contadina che, insieme ai saperi, mette in primo piano l’umanità.

Come vorrebbe essere definito Roberto De Simone?

«Pellegrino…»

Ci siamo conosciuti 40 anni fa insieme con Eduardo de Filippo e Luciano Sommella nel carcere Filangieri, l’istituto di pena minorile di Napoli, che è stato anche determinante per certe sue scelte di scrittura e lavoro teatrale. Perché lei si è rivolto a quella Napoli così difficile e lontana dal teatro?

«Nel carcere minorile Filangieri (nel romanzo Satyricon a Napoli ’44 – Einaudi – c’è un capitolo dedicato a un ragazzo di quell’istituto minorile), raccolsi un canto di tradizione orale che è inserito anche nello stesso romanzo, che poi feci eseguire in disco a Concetta Barra, e lo incisi; questo canto, in seguito, popolarmente venne definito proprio “canto dei Filangieri”».

Perché lei che è un musicista di formazione classica ha fatto questa scelta rivoluzionaria?

«Quando mi sono trovato in procinto del diploma, come pianista, autore, compositore, scrittore, sono stato vinto da una domanda che per me è diventata un qualcosa di tragicamente assillante. A che serve oggi essere musicista? E per chi? Per chi svolgo la mia attività o svolgerò la mia attività di esecutore pianistico? Il pubblico ai concerti non mi esaltava, capii che era una scelta, per quegli anni, per il tempo in cui vivevo, completamente sbagliata. Ad esempio, quelli che venivano considerati i grandi autori, compositori dell’epoca che praticavano un tardo perbenismo, producevano le loro composizioni, destinate a un pubblico intellettuale della cui rappresentatività non facevo parte. E allora dissi no, io non farò il compositore ufficiale, voglio fare il compositore di canzoni, è meglio. Come compositore è meglio abbandonare questa storia del “per bene”, e si avvia un’altra strada».

Quale?

«Forse quella di ricercare nella storia trascorsa, nel teatro corale. La mia ricerca è stata sul bisogno di individuare la funzione che la musica può avere in una collettività. Che non era quella del pubblico aristocratico o tradizionale dei salotti. E così ho cominciato la mia carriera di “pellegrino”».

Ha rischiato e poi ha vinto.

«Ho messo in discussione la mia formazione, non perché la negassi ma volevo capire a cosa servisse, per chi lavoravo, perché avrei lavorato. E così anziché svolgere la mia carriera da pianista che poteva eseguire una ballata di Chopin, una sonata di Beethoven, di Bach, ho preferito fare il pianista anche per un club di americani, mi sentivo più funzionale. Avevo studiato tanto... per far ballare i soldati americani!».

E cosa le ha lasciato quel periodo della vita?

«Una profonda conoscenza che mi ha permesso anche di suonare estemporaneamente».

Quindi in realtà la storia di Roberto De Simone è un racconto che dà vita ad un pellegrino, un viandante, ma lei ha preso un po’ da tutti.

«Bisogna rubare ai maestri. I maestri non ti insegnano solo, vogliono che li derubi».

Per i ragazzi di oggi crede che La gatta Cenerentola può essere un punto d’arrivo o di partenza?

«Non lo so. Io penso che noi, cioè io, esattamente come altri artisti che hanno seguito questo indirizzo, abbiamo sparso dei semi lungo il percorso della nostra vita. Poi questi semi nel tempo o col tempo oppure, come nel Vangelo, sono capitati in terreni produttivi oppure sulle pietre. Quelli sulle pietre si esauriscono, quelli che ancora affondano in terreno fertile germinano dei frutti che non conosciamo e dei quali non possiamo essere consapevoli a cosa porteranno. Però questo è il compito della cultura: seminare».

Uno dei frutti potrebbe essere anche la musica pop napoletana degli ultimi 20 anni.

«Quella segue un altro percorso, di quella musica io mi sono occupato, diciamo marginalmente. Tant’è che ho composto un requiem per la morte di Pier Paolo Pasolini nel 1985 a 10 anni di distanza dalla morte».

Quindi è un requiem?

«È un requiem, requiem in memoria di PPP, come Donizetti lo ha scritto per Bellini. Come Verdi lo ha scritto per Manzoni. Io in memoria di Pasolini ho scritto un requiem seguendo la forma tradizionale. Allora in quella forma usai voci accademiche di coro e voci naturali».

Parliamo di Pino Daniele. Lo ritiene un suo allievo?

«No, perché lui diceva di aver appreso le cose dai canti popolari. Ma diciamo che fa parte di uno di quei semi che inconsapevolmente ho sparso in quegli anni».

Ed è nato anche qualcosa di totalmente diverso.

«Pino Daniele aveva una qualità speciale, in un momento in cui il dialetto veniva solo praticato al testo del teatro Eduardiano di tipo borghese oppure nel momento che era praticato in forme, meglio, in cascami della cosiddetta canzone napoletana, al servizio della musica leggera dei club. Ecco quindi non più praticata nei teatri tradizionali popolari ma propagandata verso i mass media. La canzone napoletana era già disfatta ed è uscito Pino Daniele con questo linguaggio del fonema, della sillabazione molto vicina al blues, ma che in realtà ritengo inconsapevolmente e interiormente vicina a una vocalità della tradizione, cioè molto ricca di sillabazioni, intonazioni di testa e falsetti. Per cui ritengo che lui si è rivolto a qualcosa di etnico e lo ha giustificato con le sue esperienze del blues».

Lei ha avuto modo di dichiarare il teatro di Eduardo è un teatro diverso dal suo.

«Io dichiaro, diciamo, un forte dissenso per come viene usato Eduardo De Filippo, per come viene impiegato. Eduardo De Filippo a 30 anni dalla morte andrebbe rappresentato in maniera critica, storicamente per il suo tempo e per la nostra contemporaneità. Eduardo non viene analizzato per la vera complessità del suo lavoro, viene celebrato in virtù di una piccola napoletanità borghese che ripropone le proprie mitologie senza saperle rinverdire o collocare nel presente. Dal punto di vista della tradizione bisogna anche considerare che Eduardo ha segnato una profonda spaccatura fra il sé della sua formazione artistica e la grande tradizione dei comici ai quali apparteneva anche il fratello Peppino».

Sa che ci sono molte esperienze oggi in Italia di teatro in carcere?

«Sì, per esempio a Volterra mi hanno chiesto una volta di rappresentare con i carcerati La gatta Cenerentola e ho detto di sì».

E come è andata?

«È stato positivo per i detenuti».

Arnoldo Foà, che lei stimava ma con cui non ha mai lavorato, nel Manuale dei Diritti Fondamentali e Desiderabili (Mondadori), ha scritto un diritto che le piacerà, il diritto al teatro, anzi, per meglio dire, il diritto a tutti di comprendere il teatro.

«Foà è uno che conosceva le radici del teatro, oggi quanto mai attuale perché noi non abbiamo più diritto al teatro, troppo spesso ce lo impongono dall’alto».


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