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“Basta complicità” c’è scritto in inglese sul grande striscione. Il messaggio, duro e diretto, è per i capi di Stato e i leader dell’Unione europea rappresentati, qui al confine tra Egitto e Israele, su grandi fotografie. Ci sono cartelli per tutti, da Ursula Von Der Leyen a Giorgia Meloni. Assenti giustificati solo il premier spagnolo Pedro Sanchez e quello irlandese Mihael Martin, i cui governi hanno riconosciuto lo Stato di Palestina.
A reggere lo striscione “Stop complicity” e le grandi foto dei leader accusati di latitanza politica ci sono donne e uomini delle organizzazioni della società civile, ong che hanno accompagnato fin qui al Valico di Rafah tra Egitto e Israele 11 parlamentari e 3 europarlamentari di Pd, Avs e M5. Ai loro piedi giocattoli, orsetti di peluche, una ciambella con l’unicorno, libri di favole e vestitini portati qui per ricordare i 18 mila bambini ammazzati dalle bombe israeliane. Quelle che rimbombano anche ora, durante l’azione dimostrativa della delegazione italiana di circa 60 persone della Carovana solidale. Anticipo lugubre della nuova operazione militare annunciata da Tel Aviv. “Free Palestine, stop apartheid, stop genocide, stop arming Israel” scandiscono gridando le ong e i parlamentari.

Nessun camion al valico: la chiusura di Rafah ha reso inutile l'attesa - .
L’azione - organizzata da Associazione Ong Italiane (Aoi), Arci e AssoPace grazie alla collaborazione dell’Ambasciata italiana del Cairo e le autorità egiziane - vuole denunciare l’ignavia politica occidentale contro la guerra, scatenata dopo l’uccisione di 1.200 israeliani da parte di Hamas il 7 ottobre 2023. Guerra che finora ha fatto tra i palestinesi circa 53 mila vittime, per la gran parte donne e bambini. La carovana esige risposte dalla politica, sintetizzate in nove punti: cessate il fuoco immediato e duraturo; ingresso degli aiuti umanitari; fine dell’occupazione illegale dei territori; liberazione degli ostaggi israeliani e dei prigionieri palestinesi; stop alla fornitura di armi a Israele; cooperazione con la Corte penale internazioale; rispetto delle ordinanze della Corte internazionale di giustizia contro il genocidii; sospensione dell’accordo di associazione Ue-Israele.
La strada per arrivare al valico di Rafah dal Cairo passa sotto il canale di Suez. Il Sinai, penisola asiatica egiziana contesa in passato con Israele, è zona sensibile altamente militarizzata. Molti i check point, tra autoblindo e soldati col mitra imbracciato. Alternati a villaggi polverosi, asini, dromedari e cani randagi. Il convoglio ha in testa due macchine dalla polizia, una della Mezzaluna rossa, un fuoristrada irto di antenne – trasporta dispositivi jammer come misura preventiva per disturbare eventuali attacchi con droni radiocomandati – poi i due pullman della delegazione italiana di ong e politici.
All’arrivo al valico il piazzale è vuoto. Alcune ambulanze, nemmeno un camion in attesa, come invece l’anno scorso. “Un anno fa eravamo qui a Rafah e c’erano migliaia di tir in attesa di entrare a portare aiuti umanitari vitali – spiega il presidente di Arci Walter Massa – oggi questa strada è completamente vuota perché Israele da 76 giorni non lascia passare un chilo di farina, un litro d’acqua potabile, una scatola di farmaci. Mentre in questi istanti, lo sentiamo bene, a una decina di chilometri continua a bombardare. Probabilmente a Khan Younis. Al nostro ritorno racconteremo in Italia e in Europa la verità di questa realtà. E’ un impegno etico, civile e politico. Sì, siamo contenti che il ministro Antonio Tajani abbia finalmente detto una parola dopo oltre 18 mesi di bombardamenti indiscriminati. Ma è tempo di passare dalle parole ai fatti”.

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Sotto il sole rovente intanto Yousef Hamdouna traccia col gesso la sagoma dei vestiti dei bambini poggiati sull’asfalto, come nei rilievi dopo un indicente.Youssef è un operatore della ong italiana Educaid, arrivato a Roma da Gaza pochi giorni prima del 7 ottobre e mai piuù tornato dai suoi. Ha appena telefonato alla sorella Manal, che sta lì, irragiungibile, oltre questo varco sigillato. “Manal mi ha detto che manca pochissimo, oggi o al massimo domani: se non si raggiunge un accordo tocca a loro”, dice tra le lacrime. “Sono già scappati altre volte nella notte. Non sanno dove andare”. Yousef a Gaza ha quattro fratelli e tre sorelle. La madre è morta. Indossa una maglietta bianca dove ha scritto “Se a Gaza c’è crisi umanitaria, nel resto del mondo c’è una crisi di umanità”. E non smette di piangere mentre parla.
E’ Ocha, il coordinamento degli affari umanitari della Nazioni Unite, a tenere aggiornata la terribilile contabilità delle vttime tra gli operatori a Gaza: l’ultima diffusa mercoledì scorso riferisce di 44 vittime nella Mezzaluna rossa, 1.400 nel personale sanitario, 305 nelle agenzie nnu, 110 della Protezione civile che interviene tra le macerie, 511 operatori umanitari e 218 giornalisti. Una lista che – a meno che la politica italiana, europea e mondiale non ritrovi un sussulto di dignità - presto dovrà essere aggiornata. Ancora molte volte.