Francesco e la precarietà che diventa alba
giovedì 20 febbraio 2025

«Sapeva nominare le cose più strane con un’esattezza e una bellezza quasi irripetibili», queste le parole che anni fa Alessandro Baricco, in un suo prezioso contributo televisivo, accompagnava alla lettura delle ultime righe de “La cognizione del dolore”, capolavoro di Carlo Emilio Gadda. E sarà che anche l’autore torinese in questi ultimi tempi ha dovuto confrontarsi con l’esperienza della precarietà dovuta a una malattia, saranno le notizie sul ricovero di papa Francesco, non so esattamente il motivo ma ho sentito il bisogno di tornare alla bellezza e all’esattezza di quelle righe. Parole esatte e bellissime con cui Gadda ricama la nascita di un’alba sulle pareti di un dolore. Che è per me la definizione esatta di quella cosa strana che va sotto il nome di “precarietà”: la possibilità, solo la possibilità consegnata alla nostra sensibilità, di suscitare alba dall’ombra.

«Lasciatela tranquilla, disse il dottore, andate, uscite». Gadda ci prende per mano e ci porta al cospetto del dolore, toglie il velo per mostrare un corpo di donna adagiato in un letto, una deposizione, una foglia staccata dal ramo, l’emblema della precarietà. Personalmente non credo esista immagine più bella per definire la Chiesa, un corpo ferito e adagiato tra le braccia del Mistero, una vita in attesa della consegna definitiva di sé. Proprio all’inizio di un cammino giubilare ricco di eventi ecco la dolcezza di un corpo fragile a ricollocarci nel cuore dell’evento cristiano, che è poi il senso profondo della Vita, «lasciatela tranquilla, andate, uscite», svuotate ancora piazza San Pietro come quel giorno di pandemia, lasciate ad un uomo segnato dal limite di essere pontefice tra visibile e invisibile, lasciate ad un uomo solo in preghiera di mostrare il vero volto della comunità cristiana nell’atto dell’abbandono in Dio. Lasciatela tranquilla questa comunità che finalmente ritrova se stessa nel momento della consapevolezza della sua precarietà.

«Nella stanchezza senza soccorso in cui il povero volto si dovette raccogliere tumefatto, come in un estremo ricupero della sua dignità, parve a tutti di leggere la parola terribile della morte e la sovrana coscienza dell’impossibilità si dire: Io». La precarietà di un pontefice, la precarietà di ogni corpo che, nell’ottica cristiana, trasfigura la fragilità da ostacolo in possibilità. La precarietà di una Chiesa che diventa credibile solo quando non finge e nomina, esattamente, la parola terribile: “morte”. La Chiesa, volto tumefatto ma finalmente libero dal doversi mostrare perfetto, profilo su cui danza luminoso il riflesso di quella sorella che sola può accompagnare tra le braccia del Padre. Che la precarietà lasci emergere sul volto della nostra amata Chiesa la parola della morte, e l’impossibilità di dire “Io”: siamo al mondo per imparare a morire, per lasciare la prima e ultima parola all’Eterno, Lui ci salvi in un dolcissimo e definitivo “noi”.

«L’ausilio dell’arte medica, lenimento, pezzuole, dissimulò in parte l’orrore. Si udiva il residuo d’acqua e alcool delle pezzuole strizzate a ricadere gocciolando in una bacinella». La precarietà relativizza i nostri gesti, è come una mano pietosa che, finalmente, ci alleggerisce dai pesi che rischiano di schiacciarci. La verità non è nell’affanno, non nella moltiplicazione del nostro fare, il senso profondo del vivere è solo nell’accompagnamento reciproco a vivere gli spazi della fragilità, quando la vita finalmente ci sfugge di mano. I nostri programmi pastorali sono solo lenimento, a dissimulare in parte l’orrore che ci assale quando ci accorgiamo che la vita non è sotto controllo. Che tutto scorre, perché chiamato da un Altrove. Per cui non resta che strizzare pezzuole e provare ad accompagnare con dolcezza i nostri ultimi respiri all’atto finale dell’abbandono. La precarietà è l’arte di camminare il bordo estremo delle cose, è un equilibrio da abbandonare, è il tentativo ultimo di trovare il coraggio di lasciarsi andare, di abbandonarsi a una nascita finalmente definitiva.

«E alle stecche delle persiane già l’alba. Il gallo, improvvisamente, la suscitò dai monti lontani, perentorio ed ignaro, come ogni volta». La precarietà abita occhi che sanno scrutare l’alba dalle stecche delle persiane rivolte a oriente, come le chiese, la precarietà è la fame di luce che suscita l’alba in un quotidiano miracolo, forse è questo l’unico vero motivo per cui siamo vivi, per implorare l’alba nascosta nel cuore di ogni evento. La precarietà non è per nulla la sconfitta dell’umano ne è, invece, la pienezza, siamo gente precaria che cammina tra le ombre ma che ha conosciuto uomini e donne che sull’esempio del Risorto, sapevano suscitare albe perfino dai sepolcri. E sarà un gallo, perentorio e ignaro, a cantare, l’evangelico gallo che permise a Pietro di passare dall’apparente sicurezza dei propri mezzi al dolcissimo affidarsi ad un’alba abitata della misericordia divina. Canto di un gallo ad accompagnare fino alla dolcezza del pianto un essere che finalmente comprende ciò che conta davvero, non tanto promettere d’amare ma accettare d’essere amato.

«La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi, nella solitudine della campagna apparita». Ad essere precaria alla fine è la notte, che l’alba arriva ad elencare vita, alla fine, anche lì. Ad essere precaria è la condizione del dolore, e anche la morte è precaria. Così la Chiesa, precaria nel suo profilo storico ma già eterna, quando si lascia elencare da una luce che chiede solo di essere ricevuta. Con gratitudine.

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